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Vincitore |
1993 |
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Robert Olen Butler |
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I cento figli del drago |
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A Good Scent from a Strange Mountain, 1993 |
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Instar, 1995 |
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Per questi racconti, Robert Butler ha ricevuto il premio Pulitzer 1993. C'è in essi qualcosa di straordinario, un filo intenso e tangibile di memoria, storia, senso della tradizione; la capacità di riferire leggende e raccontare umanissime storie di vita e morte, esilio e separazione, attraverso una molteplicità di voci - maschili e femminili, di diverso credo e diverse generazioni - venate ora d'ironia, ora di dolore, ora di inquieta nostalgia. La guerra è lontana, appartiene al passato, eppure è una presenza costante. Resta sullo sfondo, ma non è un evento da dimenticare, è parte integrante della vita di ognuna delle voci narranti, l'origine stessa dei quindici racconti. Anche il Vietnam è lontano, siamo in Louisiana - sulle due sponde del grande fiume che vide nascere il Jazz, quasi una vocazione del luogo a dar fiato alle voci - ma il paesaggio è lo stesso, per "l'intrecciarsi dei corsi d'acqua, le risaie, il clima subtropicale, l'influenza francese". Vietnamiti originari del sud al di qua del Mississippi, quelli del nord sull'altra sponda. Nella totale adesione dell'autore alle proprie voci si sente insieme la fedeltà a se stesso e il bisogno di scrivere per sottrarre all'oblio o alla rimozione dell'Occidente le ragioni della sostanziosa vitalità di un popolo che, anche lontano dalla propria terra, alle prese con tradizioni e mentalità diverse, spesso opposte, conserva intatta un'identità millenaria pur mostrando una sconcertante, forse beffarda, capacità di adattamento (cfr. "Una coppia americana"). Non è superfluo ricordare quanto diceva Butler presentando il libro in Italia, lo scorso maggio: "Sono stato arruolato come interprete diplomatico nel 1969, e prima di partire ho studiato vietnamita a Washington per un anno. Quando sono arrivato a Saigon parlavo benissimo la lingua e potevo entrare in contatto con la popolazione. Per me i vietnamiti non erano il nemico, Il vietcong senza volto. Erano persone, le più gentili e accoglienti che avessi mai conosciuto, uomini e donne in carne e ossa. La mia esperienza in Vietnam non è stata un'esperienza di scontro, piuttosto di incontro con individui diversissimi da me, con un'altra storia, altre religioni, una lingua complessa e piena di sfumature. Ciò mi ha costretto a riflettere sul senso della mia presenza in quel paese, a sforzarmi di capire loro e a ripensare me stesso". Ne è nato questo libro bellissimo, quasi un contraltare poetico all'immaginario filmico sulla guerra del Vietnam. Per raccontare, ognuno/a di questi testimoni di quell'orrore fa appello alle antiche radici. Ricolloca nel presente e nel paese in cui è immigrato/a il senso di dignità, l'abitudine al rispetto, l'integrità del sentimento amoroso e la pietà filiale del proprio patrimonio ancestrale. L'effetto narrativo e ideologico è dirompente. Quasi una sfida. In "A braccia aperte", uno dei racconti più belli, la greve corpulenza degli ufficiali australiani si scioglie come neve al sole dinanzi alla fragile corporeità del ricordo di una moglie molto amata. La loro sfacciata volgarità va letteralmente e simbolicamente in frantumi dinanzi al pudore e alla, castità di un sentimento profondissimo. C'è un'ironia affettuosa e dolcissima in "Mr Green*, ove una donna ormai anziana ricorda il nonno, devoto a Confucio, che aveva rifiutato di emigrare in America per non abbandonare le anime degli antenati. In quanto femmina, non poteva farsi carico degli antenati, compito che spetta ai maschi tuttavia, visto che "i pappagalli possono vivere oltre cent'anni e non potevo proteggere l'anima del nonno, perlomeno mi prendevo cura del suo pappagallo". In "Preparazione", la voce femminile narrante mette a nudo con disarmante sincerità il complesso groviglio di gioie, complicità, invidia, gelosia e solidarietà di un'amicizia tra donne durata una vita intera. Butler usa le voci, le voci - anime vietnamite penetrate a fondo nella sua anima di americano e di scrittore - usano Butler. Ne risultano intrecci narrativi che, procedendo per giustapposizione di opposti, appaiono come un'educazione ai sentimenti, alla delicata e duratura intensità di affetti non sbandierati, non "consumati", piuttosto vissuti con quanto di commovente, contraddittorio e doloroso possono comportare. Ognuna di queste storie meriterebbe un commento a sé, forse perché i cento figli del Drago e della Principessa fatata che, secondo la leggenda, diedero vita al Vietnam "avendo ereditato il coraggio e la cortesia dal padre, e la bellezza, il fascino e la dolcezza dalla madre, crebbero splendidi e devoti" e ancora conservano dentro di sé quello splendore e devozione. Forse perché aleggia sulla loro vita e la loro morte "Un buon profumo da una strana montagna" (titolo originale della raccolta è appunto, "A Good Scent from a Strange Mountain*), il profumo di zucchero a velo che Ho Chi Minh usava per preparare la glassa durante il suo apprendistato di pasticciere a Londra, nel lontano 1917. È passato quasi un secolo, ma lo zio Ho torna a far compagnia al vecchissimo amico, lo introduce alla comunità degli spiriti dove staranno di nuovo insieme: "Non lo vidi venire verso di me, però l'odore di zucchero si fece più intenso, sempre più intenso, e sentii Ho Chi Minh molto vicino pur non riuscendo a vederlo. Era davvero vicinissimo. il suo odore era così forte e dolce che mi riempiva i polmoni, come se fosse dentro di me, come se Ho stesse passando attraverso il mio corpo. Poi sentii la porta aprirsi e richiudersi piano alle mie spalle". /Nadotti, A., L'Indice 1995, n.11) |
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