Carlo Bernari - Speranzella


Carlo Bernari

Speranzella

Vincitore narrativa 1950

Einaudi, 1950

 

La Napoli tra meraviglie e misteri di Carlo Bernari. di Carmen LuciaNel 1949 Carlo Bernari scrive il romanzo Speranzella che pubblicato nella collana “La Medusa degli italiani” vince il Premio Viareggio nel 1950: un romanzo corale dalla cifra neorealista dove la Napoli post-bellica rappresenta lo sfondo e il destino la speranza e il luttuoso presagio di morte. In Speranzella si concentra la cosciente visione della “realtà della vita” (p. 28) dei bassifondi e dei vicoli di Napoli, con i loro anditi e recessi, saturi di meraviglie e penombre, misteri e paure: Speranzella è il vicolo che attraversa longitudinalmente i quartieri spagnoli, un luogo reale ma anche allegorico, luogo della lacerazione e delle ferite della guerra, ma anche della luce della speranza sull’orrore dell’abisso della guerra. Qui la macrostoria dell’occupazione angloamericana s’incrocia con la microstoria dei destini dei paria, la plebe sottoproletaria, in un piccolo universo colto nell’istante più teso e drammatico della guerra. Le privazioni feroci della miseria fanno emergere in ogni aspetto del quotidiano la vita nuda di un’umanità dolente, dove l’humanitas appare lacerata dai bisogni elementari e dalle pulsioni di una feritas inferta dalla guerra, dall’ignoranza, dalla povertà. Nel dedalo dei vicoli brulicanti di umori, sussulti di vita, speranze, lo sguardo di Bernari si sofferma in particolare su due personaggi femminili: la Cafettèra donn’Elvira, sensuale matriarca del Bar Babilonia che tiranneggia il debole marito Ciccillo, e Nannina, una giovane donna che trova ricovero e “protezione” nel suo basso. Elvira e Nannina sono due figure emblematiche in bilico tra la morte e la speranza ed è proprio questo confine che possiamo intendere, a un livello più profondo di lettura, come motivo dominante nel romanzo: donn’Elvira è una figura di grande suggestione sospesa tra la violenza dell’abbandono erotico e la superstizione, gli istinti elementari della sopravvivenza e la nostalgica elegia del sogno filomonarchico (p. 121).Analogamente, Nannina viene rappresentata come corpo-oggetto di desiderio e speranze: “tutti li occhi son per lei, che piegandosi e rialzandosi vera nelle tazze, col caffè, anche un po’ di bianco del suo seno” (p. 131), con caratteri di un erotismo in bilico su un abisso di morte, come appare nella descrizione del tentativo di stupro subito da un soldato, un “ragazzone straniero” per il quale sente una “materna pietà” (p.102), pur essendo vittima di una miseria che nemmeno la speranza della fuga a Milano e del riscatto con Michele può risolvere. Qui domina un sentimento creaturale della vita, dove l’uomo, nella sua nuda semplicità è colto di fronte al dramma collettivo della cieca violenza della guerra: eros e thanatos, humanitas e feritas sono le pulsioni che la parola autentica di Bernari riesce a cogliere in una rappresentazione che non cede mai all’oleografia tipica del bozzetto, ma si identifica con una visione vera e nuda del corpo di una città-ossimoro: la miseria si contamina con l’idolatria e la magia, l’eros, senza idillio, si lega alla violenza e la fame si manifesta insieme all’abbondanza del cibo in scatola elargito dagli alleati. Sullo sfondo di una città semidistrutta, recitano la loro parte, come in un teatro di strada, tante figure che entrano ed escono dal vicolo di Speranzella e nel basso della Cafettera: l’acquaiolo, il venditore di ghiaccio, il contrabbandiere, il mago balbuziente, il bel Giosuè Mele, la livida e gelosa Pizzicatella si muovono e al contempo appaiono immobili, come inchiodati dalla condanna di una storia di morte che si vuole esorcizzare con la speranza di un’illusione di vita, sospesi in un “interregno”, per usare la metafora di Domenico Rea, tra le lampade ad acetilene con i loro rituali, tra traffici illeciti di coperte, cappotti, cibo in scatola degli americani. I personaggi veri di Speranzella appaiono incisi nel vivo delle condizioni storico-sociali come un coro ostinato.

 


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