Laudomia Bonanni - L'imputata


Laudomia Bonanni

L'imputata

Vincitore narrativa 1960

Bompiani, 1960

 

Abruzzese (L’Aquila 8 dicembre 1907 – Roma 21 febbraio 2002), maestra elementare, giudice onorario presso il Tribunale dei minorenni della sua città, e poi consulente presso quello di Roma, l’autrice rivolse sempre la sua attenzione verso i più deboli e i più umili. Scrisse alcuni libri per l’infanzia, tra i quali il più conosciuto è “Le due penne del pappagallino Verzè”, del 1948, ma la notorietà le giunse con i romanzi “L’imputata”, del 1960, vincitore del Premio Viareggio, e con il successivo “L’adultera”, del 1965, finalista al Premio Campiello. Ricevette l’attenzione e gli elogi dei maggiori critici del suo tempo, tra i quali: Eugenio Montale, Emilio Cecchi, Goffredo Bellonci (che la chiamò a collaborare alla terza pagina, di cui era direttore, del “Giornale d’Italia”), Giuseppe De Robertis, Giuseppe Dessì, Enrico Falqui. Leggendo l’incipit sembra di assistere a un fatto dei nostri giorni: il 15 settembre di un anno non precisato del primo dopoguerra un cadaverino di neonato viene rinvenuto avvolto in un giornale dentro un cassonetto della spazzatura, non svuotato da almeno quattro giorni. Lo scoprono alcuni ragazzini, abituati a rasparvi dentro, come i gatti. Una scrittura nervosa ci introduce in un ambiente popolare, dove già si annunciano sofferenze e miseria, nonché il clima aspro in cui sono costretti a crescere i bambini. La guerra è passata da poco, ancora restano le gravi ferite dei bombardamenti. La Bonanni indugia sulle scene, ma più spesso vi passa in fretta, come se adoperasse una macchina da ripresa ingorda di tutto e decida ora di soffermarsi più a lungo ora di liquidare in fretta pezzi di umanità. Snida, coi suoi singulti, anfratti di spietata indigenza morale e fisica, portando alla luce le crudeltà di un dopoguerra che ha colpito soprattutto i più deboli e i più abbandonati. Ne esce una specie di formicaio brulicante, dove il singolo esiste unicamente in forza dell’insieme rappresentato: “La Melli, che era andata a guardare dalla finestra, si disgustò di quegli schiamazzi. Respinse col piede dentro l’uscio lo stuoino sbrindellato del quale non s’era accorta fino a quel momento. Anche i due vasi sbocconcellati, e pieni di sterpi, erano suoi. Vide i vetri rimasti rotti nell’intelaiatura a schegge coperte di carta blu per l’oscuramento. L’aria circolava nella tromba delle scale portando attorno stoppacci di carta e vorticando foglie secche di gradino in gradino. S’era accumulata una polvere così spessa nei ragnateli agli angoli, da sembrare stracci appesi.” Viene in mente “Scala a San Potito” di Luigi Incoronato, del 1950. È una scrittura, dunque, radente, che tocca e fugge, preoccupata soprattutto di raggiungere il quadro d’insieme, da cui scocca la denuncia sociale che muove il romanzo. I ragazzini, “questi angeli col sesso che sono i nostri figli”, vi appaiono come monelli allo stato brado, senza una chiara educazione ed identità, se non appena accennate (“Vittorio Paris, sempre in ritardo, andava solo, coi lacci delle scarpe sciolti.”); le famiglie si legano tra loro attraverso il cortile e i balconi del casamento; le vecchie che transitano attraverso il portone emanano spesso un presagio di cattiva sorte, se non qualcosa di più, come le due Miserere: “E tra due ali uscirono le Miserere, introducendosi in quel portone con l’inaudita padronanza che acquistano le donnette dove arriva la morte. Era appena spirata la marchesa.” Una solidarietà dettata dalla miseria e dalla sofferenza cerca in qualche modo di porvi riparo. Ma l’ambiente resta cupo, intriso di vizi e aberrazioni che si cerca di tenere nascosti. Dentro un tale verminaio cresce la vita, tuttavia; i piccoli tratti che sfiorano vicende e personaggi sempre di più allungano le loro ombre, sotto le quali si formano, maturano e si consolidano fisionomie e caratteri. È il caso di Gianni, “il mutilatino”, il figlio a cui manca una gamba di Anna Falcone, o di “Femminella”, o Agatina, la ventenne rachitica che si prostituisce e inizia al sesso Gabriele, l’amico di Gianni. Il caos della povertà e delle miserie materiali e morali scatenate dalla guerra preme sempre di più nel tentativo di assumere forma e valore come risposta ad essa, mettendo contemporaneamente in luce la difficoltà di superare paure, insicurezze, assopimenti e degradi di ogni sorta: “Era la ragazza del vicolo, in una vestaglia di cretonne a rose. Le sue gambucce uscivano nude dallo spacco, le muoveva e incrociava allargando le dita dei piedi tinte di rosso.”; “Erano nello scantinato grande, mentre bombardavano, gli uomini tutti da una parte, le donne coi figli piccoli vicino e vicino alla madre quel giovane zoppo. A ogni esplosione, per coprirsi l’orecchio, alzava una mano più pallida di una faccia spaventata.” Il casamento altro non è che il simbolo di una rovina provocata da una bomba metaforica cadutavi a scompigliare, immiserire e qualche volta a distruggere: “Il ricordo della guerra sapeva di scantinato, non era un’avventura.” La vita, comunque, vi compare come la più forte delle due, in grado di riaffiorare tra le macerie, allo stesso modo che il butto nuovo, improvviso e inatteso, nasce su di una pianta che fu spezzata dal vento: “Sugli usci dei bassi le donne giovani e sdentate del vicolo gli sorridevano.” Il romanzo va assumendo sempre di più una sua speciale coralità, che la scrittura asseconda con i piccoli balzi che corrono a cercare persone e cose che animano il casamento. Spesse volte i nomi stessi dei personaggi sono trasportati lontano appena pronunciati, come da una corrente che si propone di allargarsi sul tutto. È una corrente intrisa di una specie di lugubre follia che prende soprattutto i bambini, come se gli echi della guerra fossero penetrati nelle loro carni fresche, contagiandoli. L’atmosfera sorda e tragica, una sorta di acuta e triste incomunicabilità, fa pensare al fosco romanzo di Thomas Hardy, “Jude l’Oscuro”, del 1895: “Era accaduto che il bimbo stava impiccandosi a un gancio della cucina. Sua madre lo reggeva sollevato da terra e gridava. Dovettero farle annusare l’aceto, era pallidissima. Il bambino aveva appeso al gancio la corda col cappio molto ben fatto, arrampicandosi se l’era passato al collo e col piede aveva buttato giù la sedia. Senza quel fracasso la madre non se ne sarebbe accorta in tempo. Lo trovò penzolante e già un po’ strabuzzato, che annaspava con le gambe in cerca della sedia.” La donna esce rafforzata da questa storia, dove gli uomini non sono che deboli comparse, sostituite nel loro ruolo maschile dai ragazzi, non interessati tuttavia a crescere: “Può darsi che questi bambini abbiano veramente concepito il timore di farsi adulti.”; “Gli parve di capire l’odore della natura, somiglia a quello dei bambini.” La guerra ha rivelato la fermezza, il coraggio, la solidità della donna e l’autrice non manca di sottolinearlo: “Le donne ce la fanno sempre al posto dell’uomo. Le donne sono dure a impazzire.” Nel degrado materiale e morale in cui sono precipitate, la loro resistenza le pone al centro di una vitalità primitiva, spontanea e indomabile, capace di intuire, attraverso un senso tutto speciale, le isole di sopravvivenza sulle quali sostare per riprendere fiato. La scrittura radente della Bonanni ad un certo punto, verso la fine, precipita in una corsa come spinta da una corrente sotterranea. Vi è una specie di puntiglio ad annotare, a non farsi sfuggire nulla di quel verminaio senza regole, collocato sì nell’immediato dopoguerra, ma diventato quasi un simbolo accusatorio universale, intriso di particelle che la guerra ha fatto impazzire. L’obiettivo è quello di imprimere sul lettore uno stordimento, una incredulità, infine la presa di coscienza di una tragedia accaduta. L’esempio più incisivo ed esplicativo viene proprio dai bambini, protagonisti collegiali del romanzo, i quali avvertono sfiducia e smarrimento: “Certe volte li trovano in fila sull’ultimo gradino, accovacciati, con le ginocchia alte e la testa piegata nelle braccia: come se ancora dovessero nascere, come se si rifiutassero di nascere.” È una delle frasi chiave del romanzo. La guerra ha generato, oltre che la distruzione del presente, la paura del futuro: il desiderio, ossia, di fermarsi e di non andare oltre. Il desiderio di fermare il decorso del tempo. Vi si nasconde perfino il desiderio di una incomunicabilità che attraversa e irretisce i ragazzi. Si ha l’impressione, tutta fallace, che vengano rappresentati nell’ansia e nella esuberanza dei giochi, ma in realtà sono i momenti in cui si ritrovano soli quelli che incidono sulla loro sensibilità sconvolta. Tra loro e le proprie madri si frappone una zona di silenzio e di incomprensione, nonostante l’istintivo attaccamento delle madri ai propri figli: “Non si potevano separarli, madri e figli, se non a costo di vincere resistenze che lo mettevano in difficoltà anche maggiori.” La solitudine dei ragazzi, il loro rifiuto a crescere, sono dunque il centro vero del romanzo. L’analisi di una tale disperazione è cupa e spietata. L’autrice, tuttavia, è alla ricerca di una via d’uscita, di un barlume di speranza. Ci si domanda chi sia l’imputata del titolo. La guerra sicuramente è l’imputata che ha creato lo stallo, la devastazione morale e la paura (“Parlavano del dopoguerra, questi ragazzi del dopoguerra.”) Ma vi hanno concorso molte imputate succedanee: la miseria, la follia umana, la voglia di sopravvivenza, la ricerca del piacere dei sensi come riacquisizione di una vitalità che si credeva perduta. L’imputata che tutte le sovrasta è però la stessa vita, le cui regole, complesse e spesso inintelligibili, ci trovano sempre impreparati e sorpresi. Lo stesso processo finale coglie sul volto e nelle parole dei magistrati lo stupore di una umanità che stenta a riconoscersi. Saranno infine le donne gravide che, mettendo al mondo i loro nuovi figli, daranno il segnale di una possibile rinascita: “Il sesso forte è la donna che ha figli, la spinta della vita la sostiene come l’acqua il nuotatore.” Anche se: “Avendola superata, esse non credevano più alla guerra, credevano alla impossibilità di stare in pace nelle famiglie e persino tra i piccoli.”; “è così, è la vita, il suo sapore con l’amarognolo che non stufa.” Il palazzone viene rimesso a nuovo, abbattute tegole e mura traballanti, la vita sembra assumervi quel significato andato perduto. Il piccolo Ninni non avverte più la paura d’un tempo. Quando arriva qualcuno che non conosce non si nasconde più. (https://www.paginatre.it/online/laudomia-bonanni-%E2%80%9Cl%E2%80%99imputata-1960/)

 


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