Sergio Saviane - Festa di laurea


Sergio Saviane

Festa di laurea

Vincitore Opera prima 1960

Parenti, 1959

 

Dissacratore fino all'ultimo, Sergio Saviane prima di morire volle scrivere anche un autonecrologio, in cui ricordava le sue passioni, i soprannomi guadagnati durante i tanti anni di giornalismo, gli odi che le sue battute avevano scatenato. Insomma tutto quanto riguardava il Sergio Saviane famoso. Però questo autonecrologio cominciava, significativamente, con le parole di un romanzo, «Festa di laurea», scritto da Sergio Saviane ad appena venticinque anni, nel 1953, e che, pubblicato nel 1960, fu salutato con grande rilievo da Vittorini e Calvino. E a ragione. Perché in «Festa di laurea» si intravedevano le doti, forse ancora acerbe ma straordinarie, di quello scrittore che Sergio Saviane non è poi diventato. Perché il giornalismo lo ha traviato, o, se si vuole, lo ha salvato, indicandogli un'altra strada di scrittura, spingendolo a mettere da parte la letteratura per occuparsi della cronaca, della televisione, di politici. «Festa di laurea» non è stato neppure ripubblicato negli anni successivi, ma deve essere rimasto nel cuore di Saviane, se, molti anni dopo, l'incipit è diventato l'incipit anche del suo ironico necrologio. «Festa di laurea» è un libro sul dopoguerra, un libro su Castelfranco Veneto ma anche su qualsiasi altra cittadina veneta, un libro sull'essere giovani e non riuscire a smettere di esserlo, un libro sulla paralisi di fronte alla necessità di agire, un libro sulla violenza invisibile dei rapporti umani. Ed in questo senso molto del Saviane successivo è in queste pagine, ma il tono è diverso, non ha ancora la maschera della denuncia sarcastica, dello sberleffo, neppure dell'indignazione: è un'altra cosa. A dirla brevemente «Festa di laurea» è la storia di una fuga forse mancata. Da che cosa? Dal paese, certo, dai suoi rituali, dalla sua cattiveria, ma anche una fuga dalla famiglia, dai genitori e dai fratelli, dagli amici e da quella sorta di ignavia che colora di grigio ogni gesto. Nella realtà Saviane è fuggito, anche se poi è tornato. Il suo eroe, invece, forse lo farà e forse no. Però ci ha già provato, è andato a Milano, e c'è rimasto per un pò, mantenendosi da solo, ma poi la madre lo ha chiamato, perché c'è la laurea del fratello, perché se no si ammala, perché la famiglia gli vuole bene. E lui torna. E riscopre il paese, con gli occhi di chi è andato lontano. Quello che vede non gli piace per nulla, addirittura lo annichilisce, ma un pò alla volta ne resta nuovamente catturato, come da qualcosa di ammaliante e ammorbante insieme, anzi ammaliante perché ammorbante. Si ritrova a passare le serate al bar e non sa neppure perché; non sa come faceva a divertirsi con gli amici, però ci ritorna, come fosse una necessità, una droga di cui non si può fare a meno. E forse è questo il tema del romanzo, il paese come una droga, la famiglia come una droga, il Veneto come una droga. Perché le tre cose sono strettamente intrecciate, indissolubilmente legate, e qui il giovanissimo Saviane dimostra di avere l'occhio lungo. Perché c'è, nel 1953, in nuce il Veneto di dopo, quello del boom. Negli stessi anni Comisso, nel pieno della maturità intellettuale non se ne accorgeva, ma Saviane pochi chilometri più in là si. E lo rappresentava, con disperata sobrietà, in quella sorta di passaggio di consegne tra il vecchio padre ed il fratello finalmente laureato, che segna uno stacco generazionale, ma anche etico. Perché il padre è insopportabile, è un padre padrone che vorrebbe dettare legge anche se non ne ha la forza. Ma dalla sua ha la dignità dei valori in cui crede, giusti o sbagliati che siano. Il fratello ingegnere è già un altro mondo, freme del boom imminente, ragiona in termini di furbizia, di egoismo, infine di soldi, e ancora di soldi. E già, gli schei, di cui si parlerà molto dopo, e che già in questo romanzo sono il cuore della famiglia, e cominciano a sostituire le altre cose, i sentimenti soprattutto, monetizzandoli. Quello che sgomenta il protagonista di «Festa di laurea» non è il familismo quasi svuotato di affetti; non è neppure la noia da piccolo paese, i rancori nascosti dietro il velo della amicizia, della compagnia di bevute; e non è il denaro, l'egoismo, il voler fare bella figura. Sono queste cose intrecciate, messe insieme, intimamente fuse in una società veneta già sul punto di trasformarsi.

 


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