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Karl Ove Knausgård |
2020 |
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Fine |
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Min kamp. Sjette bok, 2011 |
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Serie |
# 6 |
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Feltrinelli |
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Knausgård descrive il periodo particolarmente turbolento antecedente la pubblicazione del primo volume de La mia battaglia che coinvolge sia la sua vita familiare sia la sua identità di scrittore. Durante la stesura del romanzo non aveva pensato né tenuto conto di come avrebbero reagito le persone coinvolte e descritte nel testo. Lo zio però si incaponisce e si prodiga per distruggerlo, accusandolo di mentire già nell’esposizione di fatti che secondo lui non sono mai esistiti. Il suo intervento costringe Karl Ove a togliere il nome del padre dal romanzo, dove può nominarlo ricorrendo unicamente alle parole “mio padre”. A partire da questo, Knausgård comincia a meditare sull’importanza che il nome ha nell’identificare una persona reale e/o un personaggio, si sofferma su due poesie di Paul Celan scritte dopo la fine del nazismo e così dà inizio a una lunga riflessione sul Mein Kampf e sul nazismo, che Knausgård si sforza di leggere non come viene visto con gli occhi del “dopo”, di chi sa che quelle parole si sono trasformate in un’ideologia dell’odio che si è materializzata in morte e distruzione, ma con gli occhi del momento storico, culturale, politico contingente alla sua stesura e di chi era Hitler allora, un giovane disilluso, artista mancato, dotato di un ego enorme, narcisista, che non amava essere contraddetto, ma che non era ancora l’incarnazione del male che sarebbe diventato in seguito. L’ultima parte del romanzo affronta la crisi familiare scatenata dalla malattia di Linda, che soffre, come avevamo già visto in La pioggia deve cadere, di disturbo bipolare, e dalle sue reazioni nel momento in cui legge quello che il marito ha scritto di lei nei libri precedenti. |
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Karl Ove Knausgård - Fine
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