Carmelo Samonà - Fratelli





Carmelo Samonà

Fratelli

Candidato 1978

(Edizione Einaudi, 1978)

 

In una vasta casa di una città imprecisata vivono due fratelli. Uno dei due è malato; l’altro lo accompagna e lo assiste: una comunicazione difficile, fatta di poche parole, di molti sguardi, silenzi, contatti fisici. Con una limpidezza piana da diario il racconto di un rapporto tormentato.

«Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato». Forse c’è ancora un modo, immediato, per distinguere la letteratura pura, che non deve nulla alla dominante cultura dell’immagine e deve tutto invece solo alla facoltà rappresentativa che appartiene in senso proprio alla scrittura. Quando il lettore non assiste a un movimento che si svolge di fronte a lui, ma viene mosso lui stesso dentro una scena, a perquisire lo spazio che si descrive, indovinare i pensieri e i sentimenti che stanno dietro le parole di un colloquio; quando non gli viene tanto narrata una vicenda quanto trasmessa, con la vicenda, un’esperienza che nel lettore stesso si chiarisce come possibile e sua. A questo tipo di letteratura apparteneva Carmelo Samonà. Ispanista di fama, cominciò a scrivere tardi e morì relativamente giovane. E la sua attività narrativa – come scrive Francesco Orlando nel suo saggio – fu spinta non dall’essere letterato, ma da una precisa e personale urgenza esistenziale: parlare, descrivere, comunicare, intorno a quel tipo di relazioni umane in cui ci si trova come dinnanzi al volto della sfinge, interpellati direttamente sul senso. Fratelli, è il maggior romanzo, alla sua uscita nel 1978 fu subito amato da critici e lettori. Racconta, con una limpidezza piana da diario, del rapporto di due fratelli, ultimi di una antica famiglia restati nella grande casa avita. Uno dei due è malato; l’altro lo accompagna e lo assiste: una responsabilità di cui s’è caricato, s’indovina, non con piena innocenza e infatti scrive, quasi a voler impadronirsi dell’ultima parola. Tra la casa e per strada ogni tanto compiono i «Piccoli viaggi» o i «Grandi viaggi», che sono itinerari più nell’immaginazione dei volti che in quella dei luoghi. La partita tra loro è di parole, e l’oggetto del contendere è il significato, di termini, oggetti, gesti, ricordi: quindi vi si svolge la lotta eterna per difendere il confine della normalità dalla minaccia dell’assurdo, che la normalità combatte con senso di colpa e la coscienza di non avere in fondo più ragioni. La comunicazione tra i due rimbalza come un’eco nella dimora, deviata dagli oggetti, ampliata dai vuoti, gonfiata di volta in volta dai progetti o dai deliri. E si innalza come una sommessa catarsi.

 

 



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