Edith Bruck - Due stanze vuote





Edith Bruck

Due stanze vuote

Candidato 1974

(Edizione Marsilio, 1974)

 

Edith Bruck, la figlia dell'«ebreo povero», raminga in molti paesi fino al suo approdo in Italia, ha lasciato nei suoi libri precedenti (e in specie in Chi ti ama così) una testimonianza appassionata e indimenticabile della sua discesa agli inferi: è fra i pochi superstiti dell'Olocausto, come oggi lo si chiama per antonomasia; fra coloro che, come i messaggeri di Giobbe, sono scampati per raccontare. Sotto il segno dell'olocausto stanno anche i tre lunghi racconti di questa raccolta. Sono palesemente autobiografici, e questa è una necessità, perché il tema della strage non si presta alla rielaborazione e alla finzione:  i pochi romanzi usciti su questo argomento sono detestabili, si leggono con ribrezzo. I tre racconti si compongono a costruire una testimonianza sull'effetto ultimo della strage: una ulteriore dispersione, uno sradicamento non più riparabile. Le tre figure femminili, sui tre diversi fondali del villaggio natio rivisitato in Ungheria, di un'America minore rozza e materialista, della nave che va in Israele, sono accomunate in questo tema che pervade tutti gli stati d'animo e tutte le battute dei dialoghi: l'identità perduta, le radici strappate. Esemplare, sotto questo aspetto, è il primo racconto:   nulla qui è idealizzato, nulla è semplificato, quel ritorno dal nulla nel piccolo paese gretto e pettegolo diventa a mano a mano un coro di cento voci diverse, in cui si alternano il prima e il dopo, la riconoscenza e il disprezzo, l'invidia e la pietà. L'autrice dimostra ormai una mirabile padronanza della nostra lingua, per cui il racconto fluisce limpido e pieno: e commuove, in chi aveva narrato del Lager col vigore nativo della creatura ferita, trovare qui la non guaribile tristezza di chi chiude i conti e non si rassegna al vuoto. (Primo Levi)

 

 



Nessun commento:

Posta un commento