Tommaso Fiore - Un popolo di formiche


Tommaso Fiore

Un popolo di formiche

Vincitore narrativa 1952

Laterza, 1952

 

C’è una corda civile che lega Torino al Mezzogiorno, oltre e prima la catena operaia dell’emigrazione. Torino e la cultura azionista di cui fu guida Piero Gobetti; il Sud ed il meridionalismo di Gaetano Salvemini. Se Gobetti ebbe come maestro lo storico pugliese; Tommaso Fiore, il cantore dell’epopea contadina delle genti pugliesi, ebbe come maestro il padre della Rivoluzione liberale. Ma Torino fu anche la città di Carlo Levi, del cui Cristo si è fermato a Eboli l’opera di Fiore rappresenta un’ideale anticipazione. Un Popolo di formiche è la cronaca, infatti, di un viaggio: un viaggio nella storia dei cafoni pugliesi, anzi, come dirà Levi, un discesa nell’Averno della non-storia. L’idea che Fiore propone a Gobetti è quella di inviare delle corrispondenze che raccontino il Sud, quel mondo «serrato nel dolore e negli usi, senza conforto, senza dolcezza». Nasce così il libro di Fiore, originariamente composto di quattro lettere inviate a Gobetti e pubblicate su «La Rivoluzione liberale». Le altre due, che appaiono nella prima edizione del 1951, erano state pubblicate su un’altra rivista, «Coscientia», quando Gobetti era già esule a Parigi. Del 1956 è la seconda opera più importante di Fiore, Il cafone all’inferno. Tommaso Fiore scrive nel 1925, dunque 25 anni prima della pubblicazione del Cristo di Levi. La poetica delle micro-storie, alcuni temi e suggestioni delle Formiche le ritroviamo nel racconto di Carlo Levi. E’ la conferma di un dialogo a distanza, virtuale, circolare e serrato, Nord-Sud, dentro il cenacolo di quella che, forse, è stata la migliore intellettualità italiana del dopo-guerra. Le Formiche non sono un saggio e neppure un romanzo; sono un reportage in forma epistolare. Oggetto di osservazione e di cronaca è la Puglia, percepita come “un’espressione archeologica”: le campagne dei Trulli; l’Alta Murgia, il Salento, il Metapontino, il Tavoliere. Il resoconto giornalistico non ha, tuttavia, soffocato l’anima profonda di questa opera commovente. E questa emerge in un sentimento di rivelazione: «Mi chiederai», scrive Fiore a Gobetti, «come ha fatto questa gente a scavare ed allineare tanta pietra. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la Murgia più aspra e più sassosa; per ridurla a coltivazione facendo le terrazze (…) non ci voleva meno della laboriosità di un popolo di formiche». E così più profondamente di Carlo Levi nessuno poteva rimpiangere Fiore: «(…) Da lui molto abbiamo imparato, in tempi in cui i maestri erano rari (…) Abbiamo imparato da lui che cosa fosse la vita nel Mezzogiorno, e in che modo potesse essere vista nella sua verità, negli anni ormai così lontani da sembrare appartenere a un altro secolo (…)».

 


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