Alberto Vigevani - La casa perduta


Alberto Vigevani

La casa perduta

Finalista narrativa italiana 1990

Rusconi, anno


È passato come un outsider nella letteratura italiana. Uno di quei nomi che entrano di rado nelle storie letterarie. Eppure Alberto Vigevani, di cui giovedì 2 aprile verrà celebrato il decimo anniversario della morte con un grande convegno a Milano (ore 15 nella Sala Crociera Alta dell’ Università di Milano), è stato una lunga presenza nella nostra cultura. Scrittore, poeta, libraio antiquario ed editore, amico dei critici e degli autori più noti del suo tempo. Nato a Milano nel 1918 da una famiglia ebraica, partecipa ai Littoriali della cultura e nel ’ 38, con le leggi razziali, lascia Ca’ Foscari per l’ Università di Grenoble. Oppositore del regime, tiene a battesimo con Anceschi, De Grada, Sereni, Treccani il movimento e la rivista «Corrente», poi, sempre a Milano, apre con Remo Cantoni la libreria «La Lampada», luogo di incontro antifascista. Il suo primo romanzo, Erba d’ infanzia, esce a Firenze da Parenti. Dopo vari tentativi di fuga negli Stati Uniti, fonda la libreria antiquaria «Il Polifilo», che avrà lunga vita e che nel ’ 59 verrà affiancata dall’ omonima casa editrice. Il 13 settembre ’ 43 Vigevani fugge in Svizzera con la moglie Anna Maria Camerini e il figlio Paolo. Renata Broggini ne ha ricostruito, in un saggio del 2005, il soggiorno luganese. In particolare, dopo la pubblicazione del romanzo I compagni di settembre (firmato Tullio Righi), la sua collaborazione al foglio socialista Libera Stampa, di cui dirigerà la pagina letteraria chiamando a raccolta numerosi fuoriusciti italiani, tra cui Fabio Carpi, Nelo Risi, Giorgio Strehler, Lamberto Vitali, Luigi Santucci e Giansiro Ferrata. Il Centro Apice di Milano conserva l’ archivio di Vigevani, la corrispondenza con i numerosi amici, i materiali preparatori e le diverse stesure manoscritte e dattiloscritte dei romanzi e delle raccolte poetiche, di opere edite e inedite. Tra queste ultime c’ è Il battello per Kew, a cui Vigevani lavorò per un decennio dalla fine degli anni Sessanta e che ora viene pubblicato da Sellerio. Un romanzo con diversi ingredienti autobiografici, a cominciare dal protagonista Stephen Jacobi, un anziano libraio antiquario londinese che in una fase difficile della sua vita, dopo la morte della moglie e la relazione finita con la socia-amante Banny, sembra destinato alla malinconia e a rimpiangere il passato. Chissà che cosa ne direbbe Geno Pampaloni, che per anni fu amico di Vigevani ma anche suo puntuale critico. In effetti, sfogliando la corrispondenza inedita, colpisce la fitta rete di relazioni e amicizie che l’ intellettuale-bibliofilo riuscì a creare. Relazioni sempre improntate a una schiettezza a volte brutale. Vedi Vittorio Sereni (direttore Mondadori) e il suo braccio destro Niccolò Gallo. E vedi, appunto, Pampaloni, che nel ’ 66 rimprovera al suo interlocutore di aver scritto un romanzo, Un certo Ramondès, «che l’ autore, a me sembra, si è divertito più a pensare che a scrivere», per cui «la scrittura a molti livelli, piena di risonanze e di echi interni, ne risulta faticosa, voluta». Più in là, il 20 aprile ’ 75, il giudizio di Pampaloni, a proposito de Il grembiule rosso appena uscito da Mondadori, sarà invece più partecipe nel mettere a fuoco la poetica di Vigevani: «Ma soprattutto il personaggio, e il suo rapporto con Milano (privilegio e incomprensione), hanno una loro forza dolente che è tutta tua. Nel timbro melanconico ove si riassume il tuo narrare gli elementi fondamentali sono l’ intelligenza, l’ accoratezza, l’ eleganza e la noia (nel senso alto di taedium vitae...)». Tra gli amici-critici c’ è pure Luigi Baldacci, cui si dovrà la prefazione alla raccolta poetica L’ esistenza (Scheiwiller 1993). Tra il poeta e il narratore, secondo Baldacci, non c’ è soluzione di continuità. Nell’ 84, selezionando le poesie per una raccolta antologica, il critico dice di preferire i versi epigrammatici del risentimento a quelli del sentimento, quelli «della cupezza più che del riposo di memoria». Poi, giudicherà L’ abbandono (Rusconi 1991) «fra i tuoi libri più belli» e anche «il più complesso come partitura temporale e il più risentito sul tasto dell’ antico dolore ebraico». Non solo letteratura. A proposito di ebraismo e di questioni religiose, nel ’ 92 Baldacci si complimenta con Vigevani per un suo scritto politico e aggiunge: «Tra le cose che non hanno capito le nostre sinistre - l’ equivoco più tragico - è quello di aver creduto a una progressività del mondo arabo». Colpisce, percorrendo gli epistolari, la franchezza su cui si fondavano i rapporti di amicizia della società letteraria d’antan. Una lettera, datata 28 dicembre ’ 61, di Giorgio Bassani editor Feltrinelli (presso cui Vigevani aveva pubblicato da poco La reputazione), respinge senza mezzi termini il suo nuovo romanzo, Le foglie di San Siro: «I continui flash-back appesantiscono notevolmente la lettura, e poi non sono, in sé, troppo interessanti. Per colpa di essi il romanzo stagna troppo a lungo in zone letterariamente scontate (...)». Italo Calvino, per l’ Einaudi, l’ aveva bocciato nel ’ 59 per ragioni non letterarie ma commerciali: «Il romanzo (...) è statico, tutto basato su un’ intensità interiore che è ben difficile imporre all’ affrettato lettore d’ oggi (...). L’ atmosfera è propizia solo a chi fa molto rumore». Mentre il decano degli italianisti Carlo Dionisotti nel ’ 76 si diceva entusiasta dell’ Estate al lago, collocandolo «sotto il segno di una moderna e nostra classicità»: «Leggendolo, ho avuto la commovente illusione che quella civiltà letteraria europea dei miei anni giovanili, fra l’ una e l’ altra guerra, non fosse scomparsa del tutto».] È passato come un outsider nella letteratura italiana. Uno di quei nomi che entrano di rado nelle storie letterarie. Eppure Alberto Vigevani, di cui giovedì 2 aprile verrà celebrato il decimo anniversario della morte con un grande convegno a Milano (ore 15 nella Sala Crociera Alta dell' Università di Milano), è stato una lunga presenza nella nostra cultura. Scrittore, poeta, libraio antiquario ed editore, amico dei critici e degli autori più noti del suo tempo. Nato a Milano nel 1918 da una famiglia ebraica, partecipa ai Littoriali della cultura e nel ' 38, con le leggi razziali, lascia Ca' Foscari per l' Università di Grenoble. Oppositore del regime, tiene a battesimo con Anceschi, De Grada, Sereni, Treccani il movimento e la rivista «Corrente», poi, sempre a Milano, apre con Remo Cantoni la libreria «La Lampada», luogo di incontro antifascista. Il suo primo romanzo, Erba d' infanzia, esce a Firenze da Parenti. Dopo vari tentativi di fuga negli Stati Uniti, fonda la libreria antiquaria «Il Polifilo», che avrà lunga vita e che nel ' 59 verrà affiancata dall' omonima casa editrice. Il 13 settembre ' 43 Vigevani fugge in Svizzera con la moglie Anna Maria Camerini e il figlio Paolo. Renata Broggini ne ha ricostruito, in un saggio del 2005, il soggiorno luganese. In particolare, dopo la pubblicazione del romanzo I compagni di settembre (firmato Tullio Righi), la sua collaborazione al foglio socialista Libera Stampa, di cui dirigerà la pagina letteraria chiamando a raccolta numerosi fuoriusciti italiani, tra cui Fabio Carpi, Nelo Risi, Giorgio Strehler, Lamberto Vitali, Luigi Santucci e Giansiro Ferrata. Il Centro Apice di Milano conserva l' archivio di Vigevani, la corrispondenza con i numerosi amici, i materiali preparatori e le diverse stesure manoscritte e dattiloscritte dei romanzi e delle raccolte poetiche, di opere edite e inedite. Tra queste ultime c' è Il battello per Kew, a cui Vigevani lavorò per un decennio dalla fine degli anni Sessanta e che ora viene pubblicato da Sellerio. Un romanzo con diversi ingredienti autobiografici, a cominciare dal protagonista Stephen Jacobi, un anziano libraio antiquario londinese che in una fase difficile della sua vita, dopo la morte della moglie e la relazione finita con la socia-amante Banny, sembra destinato alla malinconia e a rimpiangere il passato. Chissà che cosa ne direbbe Geno Pampaloni, che per anni fu amico di Vigevani ma anche suo puntuale critico. In effetti, sfogliando la corrispondenza inedita, colpisce la fitta rete di relazioni e amicizie che l' intellettuale-bibliofilo riuscì a creare. Relazioni sempre improntate a una schiettezza a volte brutale. Vedi Vittorio Sereni (direttore Mondadori) e il suo braccio destro Niccolò Gallo. E vedi, appunto, Pampaloni, che nel ' 66 rimprovera al suo interlocutore di aver scritto un romanzo, Un certo Ramondès, «che l' autore, a me sembra, si è divertito più a pensare che a scrivere», per cui «la scrittura a molti livelli, piena di risonanze e di echi interni, ne risulta faticosa, voluta». Più in là, il 20 aprile ' 75, il giudizio di Pampaloni, a proposito de Il grembiule rosso appena uscito da Mondadori, sarà invece più partecipe nel mettere a fuoco la poetica di Vigevani: «Ma soprattutto il personaggio, e il suo rapporto con Milano (privilegio e incomprensione), hanno una loro forza dolente che è tutta tua. Nel timbro melanconico ove si riassume il tuo narrare gli elementi fondamentali sono l' intelligenza, l' accoratezza, l' eleganza e la noia (nel senso alto di taedium vitae...)». Tra gli amici-critici c' è pure Luigi Baldacci, cui si dovrà la prefazione alla raccolta poetica L' esistenza (Scheiwiller 1993). Tra il poeta e il narratore, secondo Baldacci, non c' è soluzione di continuità. Nell' 84, selezionando le poesie per una raccolta antologica, il critico dice di preferire i versi epigrammatici del risentimento a quelli del sentimento, quelli «della cupezza più che del riposo di memoria». Poi, giudicherà L' abbandono (Rusconi 1991) «fra i tuoi libri più belli» e anche «il più complesso come partitura temporale e il più risentito sul tasto dell' antico dolore ebraico». Non solo letteratura. A proposito di ebraismo e di questioni religiose, nel ' 92 Baldacci si complimenta con Vigevani per un suo scritto politico e aggiunge: «Tra le cose che non hanno capito le nostre sinistre - l' equivoco più tragico - è quello di aver creduto a una progressività del mondo arabo». Colpisce, percorrendo gli epistolari, la franchezza su cui si fondavano i rapporti di amicizia della società letteraria d' antan. Una lettera, datata 28 dicembre ' 61, di Giorgio Bassani editor Feltrinelli (presso cui Vigevani aveva pubblicato da poco La reputazione), respinge senza mezzi termini il suo nuovo romanzo, Le foglie di San Siro: «I continui flash-back appesantiscono notevolmente la lettura, e poi non sono, in sé, troppo interessanti. Per colpa di essi il romanzo stagna troppo a lungo in zone letterariamente scontate (...)». Italo Calvino, per l' Einaudi, l' aveva bocciato nel ' 59 per ragioni non letterarie ma commerciali: «Il romanzo (...) è statico, tutto basato su un' intensità interiore che è ben difficile imporre all' affrettato lettore d' oggi (...). L' atmosfera è propizia solo a chi fa molto rumore». Mentre il decano degli italianisti Carlo Dionisotti nel ' 76 si diceva entusiasta dell' Estate al lago, collocandolo «sotto il segno di una moderna e nostra classicità»: «Leggendolo, ho avuto la commovente illusione che quella civiltà letteraria europea dei miei anni giovanili, fra l' una e l' altra guerra, non fosse scomparsa del tutto».

 

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