«Nel romanzo poliziesco tutto partecipa al movimento, al dinamismo contemporaneo: persino i cadaveri che sono anzi i veri protagonisti dell’avventura. Nel romanzo poliziesco ci riconosciamo quali siamo: ognuno di noi può essere l’assassino o l’assassinato». Fresco e modernissimo, il genio narrativo di De Angelis – e si capisce anche da questa caratterizzazione del giallo come il genere che parla da vicino della realtà vera e dell’umanità che la abita. Il suo commissario, De Vincenzi, è destinato a restare nella memoria un tipo di investigatore «annusante», come Maigret, che cerca di assorbire le atmosfere prima di tutto, per capire i contesti esistenziali in cui matura, da cui deriva, il crimine; e si muove lento, senza ansia, da una portineria a un bar, a un appartamento, in attesa che l’evento, l’oggetto, l’incontro, la frase rivelatori, facciano balenare l’intuizione giusta: poi basta seguirla con pazienza minuziosa per sciogliere il triste mistero del crimine. E trovare una conferma in più del proprio pessimismo sulla vita. La barchetta di cristallo è del 1936: un prezioso gingillo, in apparenza una piccola cosa di pessimo gusto, collega due case, due stili di vita, e due morti, un marchese nobilissimo e un vecchio ex capitano di lungo corso dalla vita eccentrica e notturna. Due mondi diversissimi. Sembrano all’inizio uniti casualmente solo dalla comune frequenza, da parte dei diversi soggetti, di un circolo culturale, in realtà una bisca, i cui locali, come una metafora viva, stanno nel mezzo tra i due ambienti. La traccia appare a De Vincenzi quando si accorge di quanto spesso torni, nelle varie biografie, l’aver soggiornato in una città della remota Cina. E placido la segue. Ma le differenze con Maigret, al quale è stato spesso avvicinato, in verità sono profonde: De Vincenzi è un raffinato poeta, anche se non esibisce la sua dote, come i tanti investigatori dandy alla Philo Vance; non sembra soddisfatto di fare il commissario; è un colto lettore, ma non fa mostra di cultura; è un appassionato di psicologia, un freudiano (in un tempo, il ventennio fascista, in cui parlare di inconscio era già rendersi sospetti) e, in effetti, questo non lo nasconde. A volte, distante distaccato e taciturno, sembra osservare la scena proprio come da seduto dietro il lettino dello psicanalista. |
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